Una Pompei moderna. Apice era un paesino in provincia di Benevento che in seguito a due terremoti (1962 e 1980), fu abbandonato. L’allora primo cittadino, vista l’impossibilità economica di rimettere in piedi il proprio comune decise di ricostruire la città a pochi chilometri di distanza, sulla collina di fronte.
A mettere la parola fine alla storia del piccolo comune sannita ci pensarono i tecnici inviati dal ministero del Lavori Pubblici. Stando alle relazioni tecniche riferite dal sito del Comune, il pericolo crolli era troppo elevato e se ne ordinò “l’immediata evacuazione”. Solo in pochi riuscirono a restare in paese e per non più di qualche anno. Circa seimila anime furono costrette a lasciare le loro abitazioni e trasferirsi nel nuovo centro abitato che prese il nome di Apice nuova. Dopo il terremoto del 1980 il paese divenne completamente deserto.
“Così come a Pompei, un evento naturale ha fermato il tempo ad Apice. Le lancette dell’orologio si sono fermate al 1962”. Il sindaco Ida Antonietta Albanese ricorda quel 21 agosto che trasformò un borgo come tanti in un museo a cielo aperto. L’intera area oggi è transennata. Tutto è rimasto com’era. Le insegne dei negozi, l’illuminazione pubblica, le strade ciottolate, le chiese, la scuola. C’è il negozio di alimentari con la tabella disegnata a mano; la “Beccheria” con la cella frigorifera e la vetrina pronta per essere esposta in piazza; il bar del centro con il bancone ancora intatto e le bottiglie con i liquori negli scaffali; la “Vetreria” ha il tavolo da lavoro occupato da una porta “in lavorazione” e attorno tutti gli arnesi dell’epoca; il becchino ha lasciato sull’uscio del negozio due piccole bare bianche quasi ultimate; il parrucchiere con i caschi per la permanente accanto alle poltroncine per le clienti; una piccola sala di registrazione di un gruppo musicale.
Nei cortili dei palazzi sono ancora parcheggiate le auto, oggi d’epoca. Alcune schiacciate dal crollo dei tramezzi. In quelli che erano il corso o la piazza principale si procede in un silenzio surreale. Alle finestre penzolano le tende, sui balconi ancora i vasi coi fiori. Tra le macerie si entra nelle case, quasi tutte con un massimo di due piani. Ambienti per lo più rurali ma ci sono anche palazzi gentilizi. Come quello di Orlando Cantelmo, professore universitario e celebre chirurgo del primo dopoguerra. Le pareti splendono del giallo ocra dei parati. I soffitti con gli affreschi nel salone e nelle camere da letto sono incredibilmente integri.
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