Ai margini di un piccolo paese dell’Appennino Lucano sorge quello che a prima vista sembra un villaggio fiabesco abbandonato, fatto di case semi-ipogee ricoperte di erba.
Niente di tutto ciò. I Palmenti sono un complesso di “grotte” che, secondo recenti studi condotti e pubblicati dal prof. Vincenzo D’Angelo, hanno origine nella prima metà del XIX secolo. Quanto all’etimo, diverse sono le ipotesi da cui si fa derivare il termine: alcuni studiosi sostengono che derivi dal latino volgare paumentum, per il classico pavimentum, ad indicare il pavimento del locale ove si pigiavano o si macinavano le uve; altri da pavire (battere), quindi l’atto del battere, pigiare o da palmes, tralcio della vite. Me altri ancora sostengono che il termine derivi da palamentum, denominazione di un mulino a pale e del suo meccanismo.
Che il lemma palménto abbia un’origine ed un uso italiano meridionale, è ampiamente dimostrato dal riscontro di vari vocabolari dialettali. Il palmento è un manufatto che rappresenta una singolare realizzazione di architettura rurale, frutto dei vignaiuoli pietragallesi, unica in Basilicata e forse in Europa, per come sono raggruppati.
Un incantevole approccio paesaggistico originato da una aggregazione dei manufatti perfettamente in armonia con il contesto territoriale.
Qui avveniva, fino alla fine degli anni sessanta, la pigiatura delle uve e la fermentazione del mosto. Ancora oggi, alcune famiglie (anche se in numero esiguo) vinificano nei palmenti, avendo avuto cura di salvaguardare, nel tempo, la struttura e le vasche scavate nel tufo, mantenendo viva la storia, la cultura e la memoria della civiltà contadina. I palmenti sono frutto del principio elementare di economia costruttiva, grazie all’utilizzo dei materiali presenti entro i limiti ristretti dell’ambiente circostante.
L’interno del palmento presenta due o quattro vasche differenziate (dove ci sono quattro vasche due servivano per il vino rosso e due per il bianco).
L’uva raccolta nei vigneti circostanti e trasportata con asini in bigonce, veniva versata nella vasca più piccola e più alta e pigiata a piedi nudi. Il mosto, attraverso un foro, cadeva nella vasca sottostante in cui si raccoglievano anche i grappoli d’uva.
Al di sopra del varco di accesso al palmento, una feritoia consentiva la fuoriuscita dell’anidride carbonica, letale per l’uomo, che si generava dopo l’atto della pigiatura, nel corso della fermentazione.
Dopo quindici/venti giorni di fermentazione, il vino – spillato e messo in barili di 35 litri – veniva depositato nelle botti in legno, di artigiana fattura, sistemate nelle altrettanto caratteristiche grotte (Rutt) del centro storico, la maggior parte ubicate nella via Mancosa, zona avente esposizione a nord.
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